In un precedente articolo abbiamo parlato di quello che la comunità definisce Long-Covid, ed abbiamo sottolineato l’importanza di un approccio multidisciplinare atto al contenimento di quei sintomi e di quelle conseguenze della suddetta sindrome che possono ridurre la qualità della vita. Al di là del long COVID, che ovviamente esiste da relativamente poco tempo, spesso si sente dire che non si sanno ancora gli effetti dell’infezione ad anni di distanza.
Questo è assolutamente vero, ma ciò non significa che non possiamo farcene una idea!
Alcuni brillanti ricercatori si sono concentrati sull’analisi dei due coronavirus più recenti che si sono diffusi nella popolazione umana: SARS-CoV-1 e MERS CoV, provando a valutarei quali effetti riconducibili a queste infezioni si sono verificate ad anni di distanza e in quali occasioni si sono verificate [2]. Ad oggi, il Long COVID non sembra essere riconducibile ad una permanenza del virus stesso nell’organismo, in un ipotetico “ciclo litico” che si acutizza ciclicamente, ma invece si pensa che tale sindrome sia dovuta ad un insieme di danni organici o strascichi dell’infezione, che hanno molti aspetti in comune con quelli causati da questi due virus [2].
La certezza non esiste in scienza! Ma l’ipotesi secondo cui almeno una buona fetta di questi effetti potrebbero manifestarsi nei pazienti COVID, ha molto senso; ed è anche il massimo che possiamo fare ad oggi per avere un’idea di quello che potrebbe verificarsi in alcuni soggetti e porre in atto delle strategie per mitigare questi sintomi.
In questo articolo ci concentreremo sulle conseguenze cardiovascolari, renali, polmonari ed ematologiche, mentre in un prossimo articolo ci concentreremo su quelle neurologiche e legati ad aspetti psicosociali.
Manifestazioni polmonari
Diversi studi suggeriscono una compromissione della diffusione intra-alveolare nei soggetti affetti da SARS-CoV1 e MERS COV. In uno studio di follow-up a 15 anni su 71 pazienti guariti da SARS-CoV-1, il maggior grado di recupero da anomalie interstiziali polmonari e declino funzionale si è verificato entro i primi 2 anni dopo l’infezione, con il 4,6% dei pazienti con polmonite interstiziale che presentavano anomalie anche dopo 15 anni. Anomalie a lungo termine simili sono state riportate per MERS-CoV [2]. Infine, 1 anno dopo il recupero della sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), la capacità di diffusione sembra rimanere anormale nell’80% dei pazienti, con il 20% che presenta ostruzione del flusso aereo e il 20% ed una generale diminuzione della funzionalità respiratoria, seppur di lieve entità [2, 3, 4, 5]. Si ritiene che gli eventi immunopatologici indotti dal virus possano contribuire a queste manifestazioni polmonari [2].
I pazienti che si sono ripresi da COVID-19 possono sviluppare una malattia polmonare interstiziale fibrotica irreversibile a causa della persistenza dell’infiammazione cronica, sebbene le anomalie della funzione polmonare possano essere reversibili con il tempo o con i trattamenti. I pazienti con grave COVID-19 mostrano un danno infiammatorio eccessivo a causa di una mancata risposta antinfiammatoria e, successivamente, citochine proinfiammatorie eccessive che danneggiano le cellule epiteliali ed endoteliali del polmone [2].
Manifestazioni cardiovascolari
Alcune complicanze cardiovascolari sono state associate a MERS-CoV, SARS-CoV-1 e alle polmoniti derivanti dalle loro forme gravi, fra cui ad esempio l’ipotensione, tachicardia, bradicardia e cardiomegalia [2]. Tuttavia, la maggior parte delle complicanze è tornata alla normalità entro 3 settimane dopo la dimissione, ad eccezione della tachicardia, che era ancora presente nel 35,5% dei pazienti a 3 settimane [2].
Studi di follow-up più lunghi suggeriscono un aumento del rischio di malattie cardiovascolari (CVD) a seguito di infezione da coronavirus, incluso uno studio di follow-up a 12 anni che riporta che nel caso del 68%, 44% e 60% dei pazienti guariti da SARS CoV-1 si sono riscontrati rispettivamente iperlipidemia persistente, anomalie del sistema cardiovascolare e disturbi del metabolismo del glucosio [2, 6]. L’ospedalizzazione per polmonite può anche essere collegata a complicanze cardiovascolari a lungo termine, come confermato da uno studio su oltre 20000 pazienti in cui l’ospedalizzazione era collegata ad un aumento del rischio cardiovascolare (cioè del rischio di infarto miocardico, ictus e malattia coronarica fatale) a 10 anni dal ricovero [2, 7]. Inoltre, l’ipertensione e le malattie cardiache sono tra i fattori di rischio più elevati per COVID-19, in parte a causa dell’aumento dell’espressione di ACE2 nei periciti perivascolari e nei cardiomiociti dei pazienti in queste condizioni. Nell’insieme, un’ampia letteratura supporta l’associazione tra infezioni polmonari e complicanze cardiovascolari, ma molte manifestazioni cardiovascolari sembrano essere reversibili subito dopo l’infezione [2].
Manifestazioni ematologiche
Alcune manifestazioni ematologiche e trombotiche sono state associate a SARS-CoV-1, MERS CoV e SARS-CoV-2. Infatti, diverse di queste mostrano un valore prognostico negativo nei pazienti COVID-19, tra cui linfopenia, leucocitosi, trombocitopenia, elevato D-dimero e alti valori di fibrinogeno. Le ultime due si manifestano comunemente nell’infezione da SARS-CoV-2. La coagulopatia può essere causata da uno stato iperinfiammatorio, fattori protrombotici e/o endotelite, che se persistenti spesso sono associati al verificarsi di complicazioni trombotiche. Inoltre, l’aumento dell’espressione di ACE2 nelle cellule endoteliali dopo l’infezione da SARS-CoV-2 può perpetuare in misura ancora più intensa e prolungata la tromboinfiammazione [2].
Manifestazioni renali
Uno studio su 536 pazienti con SARS-CoV-1 ha riportato che il 6,7% ha sviluppato un danno renale acuto (AKI) 5-8 giorni dopo l’inizio dell’infezione virale. Di questi pazienti, il 91,7% è morto. L’AKI è stata segnalata con una maggiore incidenza nei pazienti COVID-19 rispetto ai casi di SARS-CoV-1. A tal proposito, una meta-analisi su oltre 13.000 pazienti COVID-19 ha riportato che la prevalenza di AKI nella malattia è del 17%. Altri disturbi renali riportati nei pazienti COVID-19 includono ematuria, in quasi la metà dei pazienti COVID-19, e proteinuria, segnalata fino all’87% dei pazienti critici di COVID-19. Tuttavia, gli studi devono ancora dimostrare la presenza di insufficienza renale a lungo termine nei pazienti COVID 19, e questo potrebbe derivare proprio dall’alto tasso di mortalità in coloro che sviluppano il danno renale [2].
Test clinici di laboratorio
I biomarcatori infiammatori possono aiutare a valutare la gravità della malattia. Fra questi vi sono le citochine proinfiammatorie (ad es. interleuchina-6 [IL-6] e fattore di necrosi tumorale-a [TNF-a]), proteina C-reattiva (CRP), la velocità di eritrosedimentazione (VES), la ferritina e la procalcitonina [2, 8, 9, 10, 11]. Inoltre sembra che vari marcatori ematologici abbiano un valore prognostico, fra cui ad esempio linfopenia, trombocitopenia, rapporto neutrofili/linfociti, rapporto picco piastrine/linfociti, D-dimero, tempo di protrombina [PT], aPTT [2, 8 ,12].
Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per guidare l’uso di biomarcatori per prevedere le implicazioni a lungo termine di COVID-19.
CONCLUSIONE
Come si può vedere da questo articolo, il contenimento della sintomatologia del long covid è strettamente correlato con gli squilibri della bilancia ossidativa ed in generale con una disregolazione dei meccanismi di immunità innata. Di conseguenza, potrebbe essere utile il dosaggio di quelle interleuchine associate (vedi il paragrafo test clinici di laboratorio) oltre che il dROMS+PAT test, eseguibile anche presso il nostro studio.
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